25 Aprile 2013, domani

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Domani è il 25 Aprile.

Giro a naso in su e sono un patito di targhe, perché dietro un pezzo di marmo c’è sempre una storia da raccontare ed è bello immaginare che dietro un palazzo anonimo, o una dimora antica, o un parco, possa nascondersi qualcosa di inatteso.

Tra le targhe, quelle che mi hanno sempre colpito di più sono quelle dei partigiani, che raccontano una pagina orgogliosa e degna con parole severe, forse un po’ retoriche ma verissime; c’è sempre dentro “onore”, “sangue”, “sacrificio”, e si possono solo intuire la forza d’animo, il coraggio e la paura, tante volte anche la sfiga.

Il 25 Aprile è il giorno della Liberazione di Milano e siamo abituati ad immaginarlo come il fischio finale della guerra. Un giorno di festa, ma anche di morti: mi vengono sempre in mente proprio quelli che se ne sono andati proprio nelle ore in cui tornavano pace, libertà e democrazia.

Penso ad Adolfo Ortolan, detto Dolfino, partigiano comunista, sedici anni, ucciso nell’ultima imboscata delle brigate nere a Canizzano, Treviso. Penso a Raffaele Pieragostini, operaio genovese, fuggito in un campo dalle parti di Pavia: i tedeschi lo avevano caricato su un furgone, come pedina di scambio per la fuga. Penso a Gina Galeotti Bianchi, staffetta comunista, incinta, caduta dalle parti di Niguarda: stava andando a trovare alcuni compagni.

Domani penserò a tutti quelli che se ne sono andati il giorno della Liberazione, mentre i tedeschi si arrendevano e Milano si stava liberando. Gente che aveva lottato fino all’ultimo e che non si è goduta nemmeno un momento, per un contrattempo di poche ore: una strana idea morire il 25 Aprile.

Bergoglio e Grasso

Papa Bergoglio e Pietro Grasso, due elezioni di discontinuità attraversate da un comune metodo interpretativo di parte della stampa, fatto di sospetti, ombre, circostanze (al momento) non verificate e probabilmente destinate a rimanere non verificabili. Un metodo che non mi piace. Un realismo più reale del re che inchioda l’occhio sul dito e lo tiene lontano dalla luna. Che poi è il posto a cui tendono quelli che volano alto. Buona notte e buona fortuna.

Sliding Doors: mia nonna e Bergoglio

Mia nonna sognava di andare in America, da bambina. Lei è di un paese vicino a Portacomaro, dove i genitori di Papa Bergoglio sono partiti tanti anni fa: prima Genova, poi la nave, poi l’Argentina. Alla fine non è mai andata a prendere quella nave a Genova anche se aveva messo per qualche giorno il vestito buono e la borsetta da viaggio. Un po’ alla sliding doors: potevamo nascere tutti argentini e con una storia diversa. Il Papa ha scelto Francesco come nome, il nome del mio nonno, di suo marito, e il cerchio si è chiuso comunque.

Stasera

Ho appena consolato mia nonna, 89 anni, che su una gamba sola ieri ha voluto votare per ribadire che sogna un futuro di dignità per questo paese. Temo che da domani i ruoli si invertano ma tant’è. È il nostro paese. Niente di meno.

Sessant’anni fa, Massimo Troisi

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Oggi, qualche riga per ricordare Massimo Troisi che domani avrebbe compiuto sessant’anni, prefatte da una semplice sensazione: quando il pensiero corre a Troisi incrocia un sorriso e un pezzettino di malinconia. Bellezza e Napoli, in altre parole. Alcune persone racchiudono lo spirito di una città e quando si tratta di Napoli, le declinazioni di un carattere ballano in equilibrio tra spensieratezza e malinconia, declino e modernità, religione profonda e concretezza terrenissima.

Massimo Troisi ha innovato la commedia italiana con uno strumento -il napoletano- nobile e antico, e abbracciato tutte le contraddizioni della sua città; è stato Napoli, in fondo.

Il mio sketch preferito è con Lello Arena ed Enzo Decaro, dentro una chiesa. Manca il lavoro e Lello Arena chiede una mano -e un posto- a San Gennaro. Una richiesta accorata, quasi struggente. Poi di colpo spunta fuori Troisi che si rivolge al Santo con la confidenza di un amico. “Non ti fidare Gennaro” gli dice “ha chiesto la stessa cosa anche a San Ciro…”. Leggero, bellissimo.

Girando in rete gli aneddoti, le battute sono decine. A me piace ricordare la colletta del paese per un primo intervento al cuore, Non ci resta che piangere dove con Benigni si può sfottere Leonardo che somiglia ad un genio ma non capisce cos’è un semaforo, e tutte le canzoni scritte con Pino Daniele.

Per i più giovani Troisi coincide con il suo ultimo film. Dolce, malinconico, debolissimo, vince con ostinazione ogni resistenza e conclude le riprese de Il Postino (di Neruda), la storia del portalettere del grande poeta cileno al confino in Italia. L’amicizia tra il postino umile e timidissimo e il grande maestro è una storia di amore e partecipazione di pudore e dignità unica.

E così, domani, 19 Febbraio, Caterpillar si ricorda di Massimo Troisi, nato a San Giorgio a Cremano sessant’anni anni fa e partito troppo presto, per un cuore stanco, ma ancora pieno di cose da dire. Impossibile non ricordarlo spingere la bici ne Il Postino. Nel centro della sua città c’è una ciclofficina pubblica che porta il suo nome. Un bel posto per continuare una grande storia.

Festa grande. Oggi.

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È una festa orizzontale e partecipatissima. Aderisce il Quirinale e la scuola di campagna. In mezzo ci sono danze, concerti, spegnimenti di monumenti famosi, piccole iniziative casalinghe, insomma corre la voglia di vincere una battaglia che è ambientale, economica ma soprattutto culturale. Lancia la palla Caterpillar, la raccoglie l’Italia: dalle 17, su Radio2, la Nina edizione di “M’Illumino di Meno”.

Days of Grace

Vent’anni senza Arthur Ashe. 

Qualche riga in onda stasera, per un saluto. 

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C’è un libro bellissimo che in Italia non è stato mai tradotto; bello già dal titolo, “Days of Grace” –giorni di grazia-, che tiene dentro tutta quella applicazione anglosassone alla biografia, densa, che sa di memoria famigliare, seria e divertita allo stesso tempo.

L’autore è un tennista e si chiama Arthur Ashe. Racconta la storia della sua vita. Quella di uno che può fregiarsi di avere fatto molte cose per primo, quando oltre che raro era anche pericoloso.

Ashe è nero e comincia a giocare a tennis negli anni ‘50, uno sport dove ci sono ancora i campi divisi per razze; il babbo fa il custode di un campo da tennis pubblico, la mamma lavora come colf, in quella fascia sociale che senza perbenismi viene ancora chiamata servitù.

Alto, dinoccolato, elegantissimo, Ashe gioca con gli occhiali da vista, spesso colpisce a rete dopo il servizio. E’ il primo tennista nero a vincere a Wimbledon (1975, contro Connors più giovane di dieci anni), fonda il sindacato dei tennisti, e visita il Sudafrica dov’era impossibile giocare durante l’Apartheid. Si trasforma in uno spot quotidiano all’antirazzismo, e lo rivendica. 

Una volta Corrado Barazzuti mi ha raccontato che durante un torneo era nello spogliatoio con Ashe e un altro tennista abbronzatissimo. Quest’ultimo ci prova. “Mi hai visto Arthur, sono molto più nero di te”. Ashe non replica. Un tipo molto serio. Come certi temi. Che se si riesce ad evitare una battuta è sempre meglio.

Il 6 febbraio del 1993, a New York, Arthur Ashe muore per Aids. L’annuncio della malattia aveva scioccato il mondo dello sport, ma contribuito anche a sensibilizzare sul tema.

Domani, 6 Febbraio, Caterpillar si ricorda di Arthur Ashe e dei suoi record, e di quel campetto da tennis pubblico, un luogo insolito – e gratuito- dove cominciare una grande storia.

 

Adieu la France, Bonjour l’Algerie

Ne avevo scritto su Linea Bianca, qualche anno fa e con grande soddisfazione. 

Oggi mi sembrava giusto ricordarne le gesta nel nostro calendario laico, a Caterpillar. 

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ll 5 Febbraio del 1962 è un giorno di speranza per la popolazione algerina: il presidente francese Charles De Gaulle annuncia la prossima fine dell’esperienza coloniale; sono passati otto anni dall’inizio della guerra di liberazione e centotrentadue dall’occupazione.

Nel paese c’è ancora la guerra e il cessate il fuoco arriverà il 15 Marzo. Per gli algerini si avvicina il momento del riscatto e del sogno di un paese libero e democratico: un cammino tortuoso, che ancora oggi affronta curve pericolose.

Tra chi è pronto ad esultare c’è anche un gruppo di ragazzi che hanno voltato la faccia a soldi, posizioni sicure, carriere in discesa. Fanno i calciatori e fino a quattro anni prima giocavano nel campionato francese, alcuni anche in nazionale. Poi, un giorno del ‘58, hanno deciso di sparire, mollare le loro squadra e relativi ricchi ingaggi, per ritrovarsi in una Tunisi già indipendente e giocare con la maglia della nazionale algerina, la nazionale di un paese che ancora non esiste: maglia verde con banda bianca, calzoncini bianchi, calzettoni verdi.

Gireranno il mondo per quattro anni ospiti di tutti i paesi non allineati. I più bravi si chiamano Zitouni, Makhloufi, Kermali, tanto forti da battere jugoslavi, nordcoreani, ungheresi e riempire gli stadi di mezzo mondo. Tra gli eroi della nuova Algeria ci sarà anche un gruppo di professionisti del pallone: un po’ sognatori, un po’ rivoluzionari.

Domani, 5 Febbraio, Caterpillar si ricorda della nazionale di calcio del Fln, di chi è riuscito a cambiare la propria vita giocando a pallone e un po’ anche quella degli altri.

Zena

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Sala Chiamate del Porto di Genova. Qui vale una regola chiara, si lavora tutti e si guadagna lo stesso salario. Insomma non si può essere felici senza la felicita dei propri compagni. Un murales ricorda il Console generale Paride Batini, il capo dei lavoratori del porto che a genova si chiamano orgogliosamente camalli.